Un vecchio e saggio proverbio recita: “Tanto tuonò che piovve”. Sarebbe spontaneo ripeterlo in relazione alla creazione del diamante da laboratorio che recentemente ha raggiunto uno stadio molto positivo, se non fosse che i primi esperimenti documentati del tentativo di produrlo iniziarono niente meno che nel 1879. Creare un diamante sintetico rappresenta vincere una vera sfida con la natura, in quanto ci si cimenta in un campo da Guinness dei primati, tali sono le caratteristiche da record che vanta quella che è chiamata la regina delle gemme.
Il diamante è di fatto il materiale naturale più duro in assoluto sul nostro pianeta e nell’universo da noi conosciuto, e occupa infatti il massimo gradino della scala di durezza Mohs con il 10° grado. Si forma nelle viscere della Terra a decine di chilometri di profondità in condizioni infernali di tremenda pressione e irresistibile calore, cristallizzando il carbonio in una rigida struttura tetraedrica. È di conseguenza molto difficile ricreare in laboratorio l’equivalente di tali condizioni, facendo anche attenzione al lato estetico.
Un diamante infatti non risponde solo a canoni fisici o chimici, ma se utilizzato in gioielleria deve presentare una purezza, una brillantezza ed un colore inseriti in un contesto di estrema bellezza. I fisici e i tecnici di laboratorio devono perciò calibrare al massimo le strumentazioni a loro disposizione, e non solo ricreare l’ambiente ideale per la perfetta cristallizzazione, ma prestare la più stretta concentrazione anche ai tempi e agli “ingredienti” del cristallo, le cui inclusioni o i cui residui atomici possono influenzarne le caratteristiche ottiche. Si spiega in questo modo il lungo periodo di prove ed esperimenti che sono intercorsi tra la fine del XIX secolo e i nostri giorni, prima di giungere ad un risultato che può essere definito soddisfacente.
Scendiamo però ora nei particolari della produzione del diamante sintetico. Va anticipato che i diamanti creati in laboratorio sono definiti con sigle che ne riassumono le maggiori peculiarità di produzione, e vengono chiamati HPHT (High Pressure High Temperature – Alta pressione e alta temperatura) o CVD (Chemical Vapor Deposition – Deposizione chimica da vapore), le cui procedure servirono da base per le attuali conoscenze riproduttive. Per alcuni decenni, però, non si ottennero grandi risultati, raggiungendo solo l’obiettivo di avvicinarsi alla realizzazione, senza mai giungere ad una vera sintesi riproducibile.
Più sofisticato il sistema CVD, il quale prevede la creazione di un supporto solido sul quale viene depositato un precursore molecolare in forma gassosa a sua volta veicolato da un gas da trasporto il

quale viene poi eliminato una volta decomposto. In entrambi i casi non si riuscì ad ottenere sintesi sufficientemente apprezzabili che avessero contemporaneamente buona qualità, purezza, colore e dimensioni accettabili.
Solo nel 1940 gli studi arrivarono a meritare la piena attenzione dei ricercatori, e molti laboratori intrapresero ricerche sistematiche, in particolar modo in USA, Svezia e URSS, finché nel 1953 si arrivò a produrre la prima sintesi degna di questo nome attraverso un terzo metodo, ovvero il Detonation Synthesis (sintesi da detonazione) con la quale si creano granelli di diamante facendo detonare alcuni eplosivi in carbonio.
Ci si accorse che questa sarebbe stata la strada giusta e i laboratori specializzati proseguirono caparbiamente gli studi fino al 1990 quando finalmente la sintesi fu ottenuta, seppur con un grave difetto affinché essa potesse essere accolta nel mondo commerciale: il colore del diamante sintetico risultò tendende al paglierino. Il risultato costituì comunque un grande successo perché per la prima volta furono soddisfatte e riprodotte quasi tutte le caratteristiche tipiche della gemma naturale.
Attualmente gli studi per la produzione di un diamante di laboratorio avente colore, purezza e dimensioni ottimali sono ancora estremamente vivi, e si ricorre alle più diverse e sofisticate tecnologie. Recentemente si sta provando ad interagire sulla grafite, la cui struttura prevede ogni atomo legato ad altri tre in un piano costituito dalla fusione di anelli esagonali, tentando di creare l’habitat cristallino del diamante attraverso ultra-suoni ad altissima potenza. Questo sistema è ancora allo stadio sperimentale.
Di concreto si sa invece, che la produzione di diamante sintetico è comunque arrivata ad un miglioramento sensibile, e i diamanti di laboratorio raggiungono alti gradi di purezza e colore nelle dimensioni volute. Si apre di conseguenza il solito contraccolpo che avviene in Gemmologia quando si afferma un nuovo sintetico, con la reazione degli specialisti che devono analizzare le gemme e distinguere quelle vere dalle false oppure dalle sintetiche.
Chiudo l’articolo con una nota tranquillizzante per gli appassionati del diamante naturale. Un buon Gemmologo distingue con facilità la gemma sintetica. Da parte dell’acquirente però è necessaria molta prudenza e pretendere un’analisi scritta, perché se non si è esperti si potrebbe essere tratti molto facilmente in inganno.